Trieste e la sua scontrosa grazia, Trieste città di confine. Anzi, confine di tutti i confini. Trieste ruvida e colta, povera e benestante, malinconica e allegra. Luogo dove sembrano convivere gli opposti. Trama e ordito che si intrecciano a tratti armonici, a tratti aggrovigliandosi: è arduo e semplice allo stesso tempo intessere un pensiero attorno agli aspetti economici, politici, sociali; Trieste è in fondo una città piena di paradossi. La blue economy e il tessuto economico triestino si intrecciano in apparenti contraddizioni.
Sin dalla dominazione austriaca, Trieste ha goduto di traffici economici fiorentissimi, che hanno favorito la nascita di una borghesia imprenditoriale ricca. Contestualmente ha permesso alla maggior parte dei cittadini di vivere in condizioni economiche e sociali relativamente buone. A fine ‘800 quello che ora si definirebbe pil procapite era tre volte superiore alle limitrofe zone venete. Da qui una costante immigrazione da quelle aree. Questi immigrati, il dialetto molto simile, erano chiamati “regnicoli” per distinguerli dagli “imperiali”. Di contro, i sudditi fedeli all’Impero erano apostrofati come “austriacanti”.
Agli inizi del’900 i Triestini di lingua italiana costituivano il nucleo più numeroso, ma non di molto superiori al 50% (52) e la lingua franca era, appunto, l’Italiano. La ricca borghesia mandava i figli a studiare sia a Vienna che nelle città italiane, come Firenze, Padova… Di solito si andava in Italia per le materie letterarie e artistiche e a Vienna per quelle scientifiche o tecniche. Grazie all’imponente crescita del secolo precedente, interrotta solo momentaneamente dalla dominazione napoleonica, a Trieste vi erano forti minoranze slovene (25% della popolazione, da secoli insediatesi) greche, armene, croate, serbe… Non c’era mai stata, però, simpatia verso i “fratelli di lingua”, cioè i Veneziani.
Fin dai tempi in cui le zone di confine (Trieste era un cuneo tra coste veneziane) erano della Serenissima, il peggior insulto che si potesse scagliare contro una donna era “puttana de Capodistria”; il primo epiteto è facilmente intuibile, il secondo è perché Capodistria (Koper) era la città veneziana più vicina al confine. Rivalità oramai scomparsa con l’annessione all’Italia. Rimane sempre l’inconscio timore di venir fagocitata dalla città lagunare, timore che risale al medioevo e che aveva spinto Trieste a chiedere la protezione degli Asburgo (Atto di Dedizione 1382) per evitare di venir assimilata dalla Repubblica, con cui da sempre aveva ingaggiato una lotta commerciale impari (fino alla creazione del porto franco), malgrado con il tempo, assieme alla maggior parte dell’Adriatico orientale, ne avesse assimilato la lingua (nel medioevo si parlava una variante del friulano).
Trieste era priva di una morfologia consona all’installazione di impianti industriali estesi e a una fiorente agricoltura. Il carso, oltre ad avere le stesse problematiche geografiche, è arido, fertilissimo solo nelle doline, ma altrove con terreno pietroso e una copertura terrosa troppo esigua. Quindi, è stato grazie ai traffici commerciali con il centro Europa (che all’epoca fungeva da hinterland), alla naturale vocazione mitteleuropea, alla multiculturalità che l’ha sempre contraddistinta apportando alla città idee, dinamicità culturale, suggestioni provenienti da molti popoli europei e non, che la città ha trovato ulteriori condizioni di sviluppo. Condizioni sostenute e amplificate dall’istituzione del Porto Franco ai primi del ‘700 che ne ha fatto una sorta di unicum mondiale per l’epoca (essendo un porto franco internazionale, vale a dire una sorta di stato estero con condizioni economiche agevolate, niente tasse, pagamento dei soli servizi), e ha garantito rotte commerciali in costante crescita (Austria-Ungheria, paesi dell’est, altri continenti). Solo dal 1820 si è giunti all’unione territoriale con l’Istria, che è stata anche l’hinterland di Fiume e del suo Porto. Fiume, l’odierna Rijeka, è stata di converso anche il naturale sbocco dei traffici dell’Est dell’Impero, cioè l’Ungheria e la parte sud orientale dei Balcani.
Poi arrivò l’Italia, e la peculiarità di Trieste in parte sparì. Dovette subire la concorrenza oramai interna del suo naturale rivale, Venezia, e il crollo dell’Impero in cui, assieme a Praga, senza considerare ovviamente le due capitali (Vienna e Budapest), era la città prediletta.
Con la fine della seconda guerra mondiale e il ritorno di Trieste all’Italia, dopo l’esperienza del Governo Militare Alleato e la creazione da parte di quest’ultimo del Free Territory of Trieste (uno Stato cuscinetto comprendente un territorio che va da Duino – Aurisina, in provincia di Trieste, al fiume Quieto nell’attuale Croazia, avente una sua sovranità territoriale, economica, politica e, soprattutto, monetaria (vedi Trattato di Pace del 1947 che l’Italia si è impegnata a rispettare e a mettere in atto, dove è sancito, peraltro, che il FTT non dovrebbe alcun contributo al debito pubblico italiano), le sorti del suo porto e, di conseguenza, tutto il suo tessuto economico e sociale hanno avuto un lento e graduale declino.
Trieste era tornata nel suo cono d’ombra, confine di tutti i confini, né più austriaca, né ancora italiana, preda dei mali di entrambe le identità: la perdita dell’hinterland naturale dato dall’Istria e la conseguente contrazione del territorio utile all’industrializzazione, non hanno concesso uno sviluppo imprenditoriale realmente competitivo, capace di far fronte alle sfide del mercato; allo stesso tempo la progressiva perdita di importanza del porto cittadino, la riduzione dei traffici con la conseguente dismissione delle infrastrutture, sembra aver creato una sorta di “cortocircuito vizioso” per il quale il porto di Trieste si è dovuto “arrangiare” con uffici fatiscenti e strutture inadeguate che a loro volta non potevano sostenere un volume di traffici quale avrebbe potuto essere in potenza.
Molti magazzini sono chiusi, fatiscenti o pericolanti, il personale tutto che opera all’interno della struttura portuale ha a disposizione uffici vecchi (in alcuni di questi uffici che in precedenza erano adibiti all’accoglienza di animali, la sicurezza è precaria, in alcune circostanze ci sono stati dei morti), poche sono state le opere di ammodernamento; i negozianti, oberati di tasse, hanno tenuto duro più a lungo possibile, ma tanti sono stati costretti a chiudere (le politiche neoliberiste si sono fatte sentire anche in questa realtà). Reggono i bar, i ristoranti, i pub, vuoi anche per una naturale inclinazione dei triestini a passare buna parte del tempo libero fuori casa; il turismo ha avuto un bell’incremento negli ultimi 6/7 anni. Ma è sufficiente? Gli investimenti nel turismo ci sono stati, ma si dovrebbe fare di più, soprattutto per le strutture ricettive. Sfortunatamente, la classe politica nazionale, e forse anche locale, non ha mai saputo o voluto prendere coscienza che, avendo “perso” o sarebbe più corretto dire svenduto il suo hinterland, la città per vivere doveva obbligatoriamente ripiegare sul porto, sul commercio cittadino, sul turismo e sulla pubblica amministrazione. Mentre quest’ultima ha avuto un discreto sostegno (anche qui ci sarebbe da aprire un lungo dibattito), gli altri settori hanno ricevuto gli aiuti e gli investimenti con il conta gocce e ben spalmati nel tempo.
Però… il porto, la speranza di un nuovo risorgimento triestino. Poco tempo fa Trieste è ridivenuta nuovamente porto franco, i traffici con l’estremo oriente (che non è solo Cina) acquisiscono sempre più importanza, i collegamenti con gli intasati porti del Mar del Nord, a rischio di interramento o abbassamento dei fondali grazie ai mutamenti climatici, s’intensificano (per ulteriori particolari si rimanda ai video prodotti in questa stessa sezione del blog). Trieste sta diventando lo sbocco dei traffici commerciali con l’Ungheria, soppiantando non solo Fiume, ma anche Capodistria, oggi Koper; alcuni intravvedono la possibilità di una nuova grandezza
Fin qui, in sintesi, la parte complessa. Continua…
Articolo di Federico Odoni
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